L’apertura dell’allora CPT presso la ex-caserma Polonio a Gradisca
d’Isonzo venne annunciata nel 2000 dal ministro del Governo Prodi Enzo
Bianco. La struttura venne poi inaugurata dal ministro del Governo
Berlusconi Pisanu. Già questo fatto la dice lunga sulla continuità che
ha caratterizzato la politica sull’immigrazione dei governi di centro
sinistra e centro destra che si sono succeduti fino ad arrivare alle
odierne larghe intese.
Da subito la struttura di Gradisca, i cui 248 posti sono costati 17
milioni di euro, si è caratterizzata per essere una delle più repressive
d’Italia: mura altissime, grate e inferiate ovunque, persino il cielo
del cortile interno è coperto da reti, al pari di un carcere di massima
sicurezza. Tutto questo per trattenere quelli che l’ipocrisia della
legge definisce “ospiti” poiché dentro i CIE si finisce con un atto
amministrativo e non dopo un processo penale (tanto è vero che non vi è
il reato di evasione dai CIE, e teoricamente non si è puniti se si tenta
di scappare…)
Si tratta di un vero e proprio lager che ormai da 12 anni offende lo
spirito di una terra di confine come la provincia di Gorizia, da sempre
abituata ad accogliere le genti e a confrontarsi con lo “straniero” in
termini di apertura e multiculturalità.
Ma è con la Bossi Fini e l’allungamento dei periodo massimo di
trattenimento degli “ospiti” da 6 a 18 mesi, demagogicamente
giustificato con la necessità di identificare i migrati per poi poterli
espellere (nella realtà il 90% dei trattenuti sconta i 18 mesi per poi
essere messo alla porta con un foglio di via), che la situazione a
Gradisca si fa intollerabile.
Iniziano a trapelare notizie di forme estreme di protesta come il
cucirsi le labbra o altri atti di autolesionismo, ma non solo:
esasperati dai lunghi mesi di trattenimento i migranti hanno dato vita
ad un susseguirsi di rivolte e tentativi di fuga di massa. A questi
episodi viene data una risposta da parte delle autorità di carattere
fortemente repressivo: chiusura degli spazi comuni (mensa e cortile) per
evitare gli “assembramenti”, eliminazione delle suppellettili dalla
celle (caratterizzate da una carente predisposizione di giacigli idonei
dove dormire) e privazione dei cellulari, il cui uso è invece ammesso
dalla legge. Si susseguono inoltre indiscrezioni sull’uso della forza da
parte delle “guardie” (all’interno del CIE staziona pure un reparto
dell’esercito), denunce che sono state documentate da video e foto
comparse anche in un’inchiesta del quotidiano “l’Unità“. Non è un caso
se nella recente ispezione della Commissione per la tutela dei diritti
umani del Senato, il Presidente Luigi Manconi esce sconvolto dalla vista
al centro, convenendo che la situazione è peggiore di quella del
peggior carcere italiano, e ne chiede l’immediata chiusura.
E’ in questo contesto che si arriva alla “rivolta dei tetti“
dell’agosto 2013, quando decine di migranti più volte salgono sui tetti
della struttura e vi rimangono per giorni rendendo quindi la loro
protesta visibile dall’esterno e riuscendo così a bucare il silenzio che
i mezzi d’informazione locali e nazionali mantengono su quello che
avviene a Gradisca. E’ nel corso di una di questi episodi che un
“ospite” 34enne cade dal tetto (qualcuno dice colpito da un lacrimogeno)
e riporta un trauma tale da dover essere mantenuto in coma
farmacologico.
Saranno questi fatti che finalmente smuovono le coscienze, rianimando
nella società civile un movimento contro il CIE che durante la sua
apertura e nel periodo immediatamente successivo era stato molto
presente con manifestazioni, assemblee e cortei. Persino le forze
politiche al governo della regione, con in testa la governatrice
Seracchiani (PD) si vedono costrette a chiedere al governo Letta di
intervenire.
Cosa che avviene nel fine settimana del 9-10 novembre quando tutti
gli “ospiti” vengono trasferiti in altri CIE e in parte rilasciati con
il foglio di via.
Ecco quindi il corteo di sabato 16 novembre ha sfilato davanti ad un CIE vuoto per chiedere che rimanga tale.
Si è trattato di un corteo abbastanza partecipato, con diverse
centinaia di persone che hanno percorso le strade di Gradisca, fino a
giungere alla strutture dove sono avvenute alcune “azioni“ di protesta,
tra cui la verniciatura di una scritta contro i CIE sui muri
dell’edificio.
Occorre però registrare alcuni elementi significativi sulla
composizione di questo corteo. In primo luogo, una partecipazione
leggermente inferiore alle aspettative rispetto alle innumerevoli
adesioni all’appello per la manifestazione, tra cui figuravano
personalità importanti del centrosinistra locale. Si è verificata
un’assenza pesante delle maggiori forze politiche organizzate, al di là
della partecipazione di singoli militanti o iscritti: pochissime le
bandiere con i simboli “di partito“, a parte una presenza visibile del
PRC e della nostra neonata organizzazione di Sinistra Anticapitalista.
Da rilevare anche la sostanziale mancanza di interventi di natura
specificamente sindacale, il che ha determinato la carenza tra le parole
d’ordine della manifestazione di riferimenti alla specifica
collocazione dei migranti nella catena di sfruttamento nel mondo del
lavoro, privilegiando i richiami ad un’accezione più genericamente
”umana” ed ecumenicamente ”fraterna” di solidarietà.
Nutrita, comunque, la presenza delle associazioni e dei movimenti che
si occupano da tempo del tema immigrazione, e che erano anche i
promotori dell’evento.
Nel complesso si può affermare che, nonostante i limiti evidenziati,
questa mobilitazione dai caratteri più marcatamente sociali che politici
è stata positiva. Erano diversi anni che non veniva organizzato un vero
e proprio corteo a Gradisca su questo tema, e inoltre era doveroso
esprimere una risposta politica alla manifestazione di contenuti opposti
organizzata della Lega Nord, che si sarebbe tenuta davanti al CIE
l’indomani.
Vista tuttavia la presenza non particolarmente significativa dei
migranti alla manifestazione (dovuta anche alla tensione determinata
dalle rivolte dei giorni immediatamente precedenti e ai successivi
trasferimenti), sarà importante lavorare per favorire la nascita di
movimenti e processi di auto-organizzazione di questi settori della
società; tutti fattori che nell’Isontino procedono ancora con una certa
fatica, ma che da iniziative come questa possono trovare nuovi slanci.
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