di Franco Turigliatto
Nei
corsi di economia sulla moneta i professori insegnano un principio
semplice, ma fondamentale: la moneta cattiva scaccia quella buona dalla
circolazione.
Che
cosa significa? Significa che se in un dato paese e una economia
esistono due monete correnti e una di questa, per determinate cause,
comincia a deprezzarsi, quella di maggior valore e stabile scompare
dalla circolazione, lasciando in campo soltanto la seconda che tenderà a
svalutarsi sempre di più. La prima infatti viene tesaurizzata, cioè,
cittadini e operatori economici, la ritirano dalla circolazione e la
mettono in cassaforte come un tesoro per preservarne il valore e
garantirsi una riserva economica e monetaria.
La
stessa cosa succede al lavoro, quello di cattiva qualità, in mancanza
di costrizioni normative e di rapporti di forza tra le classi favorevoli
ai lavoratori, in un contesto di libera concorrenza capitalista (libere
volpi in liberi pollai) tende a scacciare il lavoro buono, meglio
retribuito e tutelato.
Ormai
più di vent’anni fa dissero che era necessario favorire l’inserimento
dei giovani al lavoro, che occorreva combattere il lavoro nero e che
quindi bisognava introdurre forme più flessibili di contratto tali da
spingere i padroni ad assumere regolarmente in queste nuove forme per
loro più vantaggiose: vennero dapprima i contratti di formazione e
lavoro, poi arrivò il pacchetto Treu col governo Prodi 1, poi la legge
30 e il decreto applicativo 276 con il governo Berlusconi 2 che
portarono i contratti atipici e precari al numero di 43, sempre per
“favorire l’occupazione e ridurre il lavoro nero”. Il risultato è
davanti agli occhi di tutti: la disoccupazione è al 12,8%, quella
giovanile al 40%; il lavoro nero esiste come e quanto prima; si è via
via ridotto il lavoro buono, quello a tempo indeterminato, quello difeso
dai contratti nazionali di lavoro.
“Ma la concorrenza”, ci dicono, “è un principio naturale, perché limitarla?” E “Perché non ridurre salari e stipendi del 25%”
come è nelle necessità e nel progetto dei padroni europei e delle
istituzioni. Così, tanto per cominciare, da venti anni gli aumenti
salariali sono stati contenuti al di sotto dell’inflazione, poi nel
pubblico impiego si sono bloccati gli stipendi. Ora che si è formato un
enorme esercito di riserva, di senza lavoro, che preme sugli occupati il
discorso diventa un semplice ricatto: “non vuoi accettare una riduzione di salario, allora io fuggo lontano, in Serbia, Bulgaria e tu arrangiati”.
Ma le cose bisogna farle anche per bene, legalmente: ecco così che
arriva prima l’articolo 8 della legge n. 148 del 2011 del governo
Berlusconi, poi l’accordo interconfederale Confindustria e CGIL CISL e
UIL del 28 giugno 2011, e poi infine il più recente accordo sindacati
Confindustria del 31 maggio 2013, perfezionato con il regolamento del 10
gennaio 2014 che permette, a seconda delle aziende e delle situazioni
di derogare dai contratti nazionali sul piano salariale e normativo.
Derogare dalle norme, specie quelle penali, in genere significa finire
in galera (almeno per i poveretti); in questo caso significa che i
dirigenti sindacali accettano quanto propone il padrone per aumentare lo
sfruttamento, cioè i contratti in deroga, quanto cioè Marchionne due
anni fa ha imposto con la violenza e il ricatto ai lavoratori Fiat,
indicando la strada da percorrere a tutti i padroni.
E’ stata lunga premessa storica per arrivare alla drammatica attualità del caso Electrolux.
All’improvviso
(!?) l’Electrolux, una multinazionale che ha rilevato a suo tempo gli
stabilimenti della Zanussi, esce con una proposta choc per ridurre il
“costo del lavoro” che lascia tutti interdetti. E’ un’azienda svedese,
qualcuno forse sperava anche in odore di socialdemocrazia; niente di
meno vero, l’Electrolux è una azienda come le altre, agisce sul libero
mercato e l’obiettivo è fare profitto; nessun problema, se per
riuscirci, occorre tirare il collo ai dipendenti. La direzione riprende
quanto il capo della Fiat aveva già imposto: “Lavoratrici e lavoratori
dovete prendere o lasciare, mangiare questa minestra o saltare dalla
finestra. Anzi vi cacciamo a pedate dalla porta stessa e ce ne andiamo
altrove, dove facilmente possiamo trovare altri poveretti disposti a
sopportare quello che voi oggi rifiutate”.
Le
proposte aziendali sono semplici: stipendi che scendono da 1400 a
700-800 euro, riduzione del 20% dei premi aziendali, ore lavorate solo
6, blocco dei pagamenti delle festività, riduzione di pause e permessi
sindacali, lo stop agli scatti di anzianità, chiusura di uno degli
stabilimenti italiani. Poche idee, reazionarie, ma molto chiare.
All’improvviso
tutti si stupiscono, i sindacati che gridano (giustamente) allo
scandalo, la Serracchiani, della segreteria di Renzi, qualche dirigente
della Lega che si è scordato di aver votato i provvedimenti di
Berlusconi che già andavano in questa direzione e di aver dato una
montagna di soldi all’azienda svedese quando è arrivata.
In
fondo qual’è la colpa della direzione di Electrolux che ha subito
trovato la benevola comprensione del ministro dello sviluppo Zanonato?
Propone solo una “deroga” un pochino troppo “allargata”; esagera un poco
nelle richieste, ma è perfettamente dentro lo spirito degli accordi
siglati dai burocrati sindacali. La direzione dell’Electrolux sapendo
che dovrà comunque fare una trattativa, si pone in una posizione
vincente, chiedendo il massimo per portare a casa comunque un grosso
risultato, anche se per chiudere l’accordo dovrà fare qualche limatura.
Quelle limature che qualche esponente del governo o burocrate sindacali
potrà domani presentare come grande vittoria, quando invece sarà un
vergognoso cedimento e una sconfitta per i lavoratori.
Se
le direzioni sindacali volessero fare sul serio, se volessero veramente
impedire che dopo la vicenda Fiat quella Electrolux allarghi sempre più
la breccia per cui il lavoro “buono”, ancora coperto da contratti
nazionali, sia scacciato dal “lavoro in deroga”, dovrebbero
immediatamente denunciare l’accordo di venti giorni fa, dire chiaramente
che tutti i padroni che si comportano in questo modo debbono essere
cacciati, che le aziende debbono essere requisite ed espropriate.
Dovrebbero
anche chiamare i lavoratori ad occupare le fabbriche ed impedire che
anche solo uno spillo esca dalle loro porte e finestre. Dovrebbero dire “ci
siamo sbagliati, le cose in tutto il paese hanno preso una brutta piega
per il lavoro; ma ora basta, lavoratrici e lavoratori di tutte le
aziende, vi proponiamo una nuova stagione di lotta, vi proponiamo una
piattaforma rivendicativa basata sulla difesa dei contratti nazionali,
su aumenti salariali per tutti, sulla riduzione d’orario, sulle
nazionalizzazioni e l’intervento pubblico diretto quanto i padroni
licenziano, delocalizzano e ricattano. Vogliamo fare le assemblee in
tutte le fabbriche, discutere democraticamente, passare dalle parole ai
fatti, alla lotta, non lasceremo più i lavoratori di nessuna azienda a
difendersi da soli e il più delle volte sprofondare, non lasceremo più
che il lavoro cattivo scacci quello ancora parzialmente buono”.
Forse
in questo modo la moneta buona, quella che permette di vivere
decentemente, potrebbe ritornare a circolare nel nostro paese.