mercoledì 28 agosto 2013

No all’ipocrisia dell’intervento imperialista “umanitario” in Medio Oriente!

Abbasso il tiranno Assad!

Mentre ONU come al solito guarda altrove, le maggiori potenze imperialiste discutono senza reticenze come intervenire nella crisi siriana che hanno contribuito ad aggravare finanziando ciascuna i “propri” ribelli. L’intervento naturalmente non ha certo la funzione di sostenere i diritti democratici del popolo siriano, ma di garantire gli specifici interessi economici e geopolitici dei paesi capitalistici occidentali. Con la consueta ipocrisia hanno ignorato tre anni di stragi che hanno provocato più di 100.000 morti e milioni di profughi, e per poi fissare unilateralmente una “linea rossa” per giustificare l’intervento diretto, presentato come “umanitario”. Da anni infatti il regime dittatoriale di Assad ha condotto una vera e propria guerra contro il suo popolo per mantenersi al potere ricorrendo alle più feroci repressioni e a veri e propri stermini di massa per impedire che il movimento di massa lo rovesciasse.
Se non otterranno una qualche ambigua dichiarazione delle Nazioni Unite, le potenze occidentali utilizzaranno come in Kosovo la copertura (giuridicamente infondata) di una coalizione di parte come la NATO.
I disaccordi su tempi e modi per l’aggressione, sono legati soprattutto a motivi di equilibri interni a ciascun paese imperialista, ma anche a incertezze sull’esito. I bombardamenti “mirati” difficilmente distruggerebbero le forze specializzate nella repressione e darebbero anzi loro una motivazione “patriottica”, mentre colpirebbero sicuramente la popolazione già provata da tre anni di guerra civile, e potrebbero avere anche ripercussioni incontrollabili in vari paesi limitrofi, a partire dal Libano.
Le apparenti cautele della diplomazia del nostro paese sono tra l’altro legate proprio alla preoccupazione per un coinvolgimento dei contingenti militari italiani presenti nel Libano meridionale, del tutto inadeguati nel caso di una nuova esplosione della guerra civile in quel paese. D’altra parte un aperto coinvolgimento dell’intera area, potrebbe far saltare i precari equilibri imposti dal golpe militare in Egitto, dove sono presenti forti interessi di capitalisti italiani. Ma basterebbe poco a spingere il governo Letta-Napolitano a cercare un ruolo maggiore nella guerra, soprattutto se gli Stati Uniti, finora indecisi per contraddizioni interne e per il ricordo di brucianti fallimenti di analoghe imprese nell’area, si impegnassero decisamente e chiedessero il coinvolgimento anche dell’Italia, preziosa dal punto di vista strategico.
In ogni caso va ribadito che Stati Uniti e paesi europei, divisi ma egualmente poco credibili, non hanno nessun diritto a intervenire in Siria, soprattutto dopo aver ignorato le stragi precedenti che hanno soffocato una rivolta popolare spontanea e trasformato la Siria in un campo di battaglia.
Come hano scritto i compagni siriani della corrente rivoluzionaria (vedi comunicato) “La nostra rivoluzione non ha alleati sinceri, fatta eccezione per le rivoluzioni dei popoli della regione e del mondo e per i militanti che lottano ovunque per liberarsi di regimi oscurantisti, oppressivi e sfruttatori.”
D’altra parte i paesi occidentali hanno ignorato gli eccidi compiuti in Egitto dai militari golpisti o dagli eserciti sauditi nel Bahrein, ecc., e hanno continuato a produrre e vendere armi a tutte le parti in causa.
Ma occorre essere chiari anche su un altro punto: la condanna dell’aggressione e dei paesi che la preparano non può in nessun caso essere una motivazione, come succede per molti nel nostro paese, per una “riabilitazione di Bashar al Assad”, ultimo rampollo di una dinastia che ha compiuto nel corso della sua storia innumeravoli crimini e che ha spesso collaborato con l’imperialismo né per voltare le spalle alle legittime e fondamentiali aspirazioni democratiche del popolo siriano di cacciare la dittatura assassina.
Contro le imprese imperialiste rifiutiamo l’utilizzazione delle basi NATO in Italia, non solo in questa guerra. Nessuno minaccia il nostro paese. Le organizzazioni terroriste crescono e reclutano adepti proprio come risposta alla presenza di militari stranieri, come ha mostrato l’Afghanistan.

Rilanciamo la lotta contro le basi militari e contro la NATO, strumento imperialista!
No alla produzione e al commercio di armi letali!
No alle enormi spese militari che sottraggono risorse preziose al paese!
Sostegno al popolo siriano e agli altri popoli che lottano per la democrazia e la loro libertà.
Sostegno alle correnti rivoluzionarie che lottano contro Assad e contro ogni ingerenza imperialista.

giovedì 8 agosto 2013

Berlusconi libero, la Costituzione imprigionata

di Franco Turigliatto

La crisi politica italiana si contorce su se stessa senza che si intravedano a breve soggetti politici o sociali che possano imprimere mutamenti sostanziali e ancor meno determinarne soluzioni radicali alternative, qualsiasi sia il loro indirizzo.
Per questo l’ennesimo balletto a cui si assiste in questi giorni, le incertezze, le manovre e i ricatti degli esponenti del PDL nel tentativo di salvare comunque il capo e se stessi da una crisi che non può essere rovesciata, le mille divisioni del PD e la sua assoluta mancanza di qualsiasi ipotesi alternativa diversa dal tirare anch’esso a campare risulta insopportabile di fronte alla drammaticità sociale ed economica vissuta dalla stragrande maggioranza delle/dei lavoratrici/tori e cittadini. Tutto ciò esprime il carattere maledeorante del capitalismo italiano nella sua incapacità di darsi una direzione politica minimamente credibile; il padronato, dopo il fallimento sul piano politico, dell’operazione Monti, punta soltanto ad avere un governo, qualunque esso sia, che gestisca i suoi affari correnti, cioè l’applicazione delle ricette dell’austerità. E su questo terreno non può essere del tutto dispiaciuto.
La borghesia italiana avrebbe voluto fare a meno di Berlusconi da tempo, ma costui è pur sempre parte sua e non ha mai trovato gli strumenti e la forza per liberarsene davvero, così il capo del PDL resta presente, certo non più come prospettiva credibile, ma soggetto capace di mantenere una percentuale di consensi elettorali e di ricattare e mercanteggiare come fa ogni giorno.
E’ fin troppo ovvio che questo gioco del PDL è possibile anche e soprattutto per il ruolo perverso che il PD da sempre ha condotto nei confronti del centro destra e che lo ha portato a non vedere altra soluzione che quella dell’attuale coalizione, così ben “rappresentata” dal personaggio Letta.
L’abbiamo detto più volte e deve essere ripetuto, una denuncia giusta e sacrosanta che anche i grillini fanno: tra Pdl e PD non c’è alcuna reale divergenza di fondo. Per parte nostra specifichiamo che entrambi rispondono a un solo padrone: alla borghesia italiana e ai suoi interessi da cui deriva l’assunzione del credo liberista dominante e le correlate scelte involutive e autoritarie del quadro istituzionale, di cui il presidenzialismo è la punta dell’iceberg.
Non è un caso che costoro siano impegnati in un ulteriore vergognoso processo di svuotamento della costituzione, di manomissione dell’articolo 138, l’articolo che disciplina le modalità attraverso cui si possono cambiare le norme costituzionali prevedendo, in sostituzione, un iter molto più rapido e semplice, che faciliterebbe il loro compito di stravolgimento istituzionale.
E’ un ulteriore passaggio per rendere il testo costituzionale pienamente corrispondente alla realtà materiale profondamente cambiata che poco ha ormai a che vedere con l’ispirazione originaria.
Per altro modifiche costituzionali ampie e formali già sono state realizzate, a partire da quella dell’inizio del secolo del centro sinistra, per arrivare alla recente introduzione del pareggio di bilancio in costituzione; inoltre la ratifica del fiscal compact, che è un trattato internazionale, risulta palesemente in contraddizione con molte norme democratiche dello Statuto. A questi elementi si deve aggiungere più recentemente l’accordo del 31 maggio firmato dai sindacati maggioritari e dalla Confindustria che costituisce una palese violazione dei diritti sindacali e democratici sanciti dalla carta del ’48.
Hanno di certo ragione a protestare contro la modifica dell’articolo 138 gli intellettuali, i costituzionalisti, le decine di migliaia di cittadine e cittadini che hanno firmato l’appello contro questo ulteriore stravolgimento delle norme costituzionali. Ci sono tuttavia diversi problemi. Il primo è semplice; come mai molti (non tutti) di questi prestigiosi studiosi non si cono accorti o non hanno denunciato con forza le precedenti alterazioni?
Secondo ordine di problemi. Moltissimi di questi svolgono la loro attività politica e sociale dentro un’ottica in cui il PD resta un referente obbligato di cui non riescono a liberarsi; solo che il PD è parte fondamentale di questo disegno involutivo, è uno degli agenti della ferita democratica denunciata.
Esiste infine un terzo problema che ci riguarda tutti: in questa fase la sola battaglia democratica, anche se sacrosanta, può non avere la forza per essere vincente, di fronte a una società frantumata, con un movimento dei lavoratori disperso e demoralizzato e quindi senza un soggetto sociale capace di farsi carico di una lotta alternativa, prima ancora di un vero progetto alternativo.
Una forza come il movimento 5 stelle col passare dei mesi è riuscita ad affinare la sua azione parlamentare, anche attraverso un processo di selezione del suo personale politico, che può ora non sfigurare di fronte all’inguardabile schieramento di maggioranza e dei suoi rivolgimenti; ma la sua battaglia resta solo sul piano parlamentare e democratico, del tutto legittima; solo che se ci fosse una forza di classe questa dovrebbe essere raccordata a tutto campo con le battaglie e il radicamento sociali.
E’ proprio questa mancanza di lotta sociale che lascia ampi margini di azione alla borghesia, pur di fronte alla sua crisi di direzione: la crisi politica si macera in una disgustosa mucillaggine, ma le misure economiche e il degrado sociale vanno avanti giorno dopo giorno mentre si profilano i provvedimenti dell’autunno per dare corpo alle norme del fiscal compact.
Le responsabilità delle forze sociali, i sindacati, che ancora hanno un riferimento al movimento dei lavoratori sono dunque enormi; le ricordiamo perché sono uno dei dati di fondo della situazione italiana e devono essere denunciate.
In questa fase pare difficile poter ottenere dei risultati reali, se non si prova a tenere insieme la battaglia sociale per il salario e il lavoro e le battaglie democratiche; solo un fronte di forze politiche, sociali ed intellettuali che integri in sinergia questi due aspetti in un’ottica di classe potrebbe far brillare un raggio di luce nel cielo per ora plumbeo del paese.
Per quel che ci riguarda non disdegniamo le battaglie democratiche, e siamo più che mai disponibili a praticarle, ma sappiamo che oggi la chiave di volta richiede un autunno di forte mobilitazione sociale e democratica contro questo governo e le sue misure e ampi settori di lavoratori capaci di reagire e di ritrovare la strada della lotta.
Per parte nostra lavoreremo a fondo perché si realizzi un fronte sociale e politico di coloro che rigettano l’austerità e si oppongono a ogni tipo di involuzione antidemocratica, non coinvolti nel gioco delle manovre e delle piccole alleanze.
Poi naturalmente chiediamo a tutte e tutti coloro che condividono la nostra prospettiva politica di costruire insieme a noi, a partire dalla partecipazione al nostro seminario fondativo del 20-22 settembre a Chianciano, una più forte e radicata organizzazione politica, per sviluppare un ampio movimento anticapitalista e libertario nel nostro paese.

lunedì 5 agosto 2013

20-22 SETTEMBRE 2013: Assemblea fondativa seminariale di Sinistra Anticapitalista

Dalla classe lavoratrice e dai movimenti sociali un progetto rivoluzionario per il socialismo

Quest’anno il tradizionale seminario di settembre dell’organizzazione si svolgerà in Toscana, a Chianciano Terme (Hotel Villa Ricci).

1. Sarà qualcosa di più di un semplice seminario; si tratta di una vera assemblea fondativa di una nuova organizzazione, del rilancio dell’attività del nostro collettivo politico e della ridefinizione del nostro profilo politico di classe e rivoluzionario. Questa nuova organizzazione prenderà il nome di Sinistra anticapitalista.
Invitiamo a parteciparvi non solo tutte e tutti le/i nostre iscritti/i, ma anche tutte /i coloro che guardano con simpatia alle nostre proposte politiche e che con noi già lavorano sui luoghi di lavoro, di studio, nei movimenti sociali.

2. La vecchia Sinistra Critica, emersa dalla storia e dalla battaglia politica in Rifondazione Comunista, viene dunque superata dallo sviluppo degli avvenimenti, non ultimo la scelta di una parte di Sinistra Critica di utilizzare altre modalità di intervento politico e dalla nostra volontà invece di costruire un’organizzazione rivoluzionaria più radicata nella classe lavoratrice e nello stesso tempo partecipe degli sforzi unitari per costruire la resistenza e la lotta contro il sistema capitalista.
In questa metamorfosi naturalmente il nostro profilo comunista, ecologista e femminista non declina, ma si enfatizza.

3. I lavori saranno preparati da un testo politico, che discuteremo anche in assemblee preparatorie locali nella prima parte di settembre. Nel testo ci sarà una lettura della crisi capitalista, dei movimenti di resistenza, dei livelli di coscienza di classe, del rapporto tra organizzazione e sviluppo dei movimenti; includerà una parte sulla costruzione del progetto politico alternativo, del movimento rivoluzionario per il socialismo, o come viene precisato per l’ecosocialismo.

4. Una parte dei lavori sarà fortemente caratterizzata da una visione internazionalista, con la presenza di militanti rivoluzionari/e di altri paesi e con il reciproco scambio di esperienze. Saranno infatti presenti delegazioni dalla Grecia, dalla Francia e dalla Germania, oltre naturalmente alle compagne e ai compagni svizzere/i con cui già da tempo intratteniamo un comune lavoro.

Le compagne/i di Sinistra Critica, che partecipano alla costruzione di Sinistra Anticapitalista

I lavori

Venerdì 20 settembre

ore 15,00 Apertura e presentazione del seminario
ore 15,15 Relazione introduttiva
ore 16,00 -19,30 dibattito
ore 21,30 Incontro “La situazione italiana spiegata alle delegazioni internazionali”

Sabato 21 settembre

ore 9,00 Riunione commissioni di lavoro
ore 10,30 Report commissioni in assemblea plenaria. Relazione sulla situazione europea e ripresa del dibattito
ore 13,30 Interruzione pranzo
ore 15,00 -19,30 Ripresa assemblea plenaria (in questa fase dell’assemblea
sono previsti gli interventi degli ospiti sia internazionali sia italiani)
ore 21,30 Commissioni di lavoro su Francia, Germania e Grecia con le delegazioni dei tre paesi.

Domenica 22 settembre

ore 9,00 Ripresa assemblea plenaria
ore 12,00 Conclusioni politiche
ore 13,00 Votazioni documenti e elezione del coordinamento
ore 13,30 Chiusura dell’Assemblea

I costi di partecipazione

Anche in questa occasione operiamo diversi livelli di costo:
  • 100 euro per due giorni di pensione completa a persona per coloro che hanno una lavoro stabile o assimilato.
  • 70 euro per due giorni di pensione completa a persona per coloro che sono in cassa integrazione, lavoro precario, studenti ecc.
  • Per quanto riguarda i disoccupati si tratterà di fare una valutazione con il circolo locale per garantire un sostegno sufficiente.
I costi sono relativi al soggiorno in camera a due letti. La camera singola ha costi aggiuntivi (15 euro al giorno), ma le camere singole disponibili sono assai poche.

Dove:

Hotel Villa Ricci
Viale G. Di Vittorio, 51 – Chianciano Terme
Tel. +39 0578 63906 Fax +39 0578 63660

 Come arrivarci:

  • per chi arriva in macchina in autostrada provenendo da Roma l’uscita autosdradale è CHIUSI CHIANCIANO;
  • per chi arriva in treno sempre da Roma la stazione in cui scendere è CHIUSI. Davanti alla stazione c’è la navetta che sale a CHIANCIANO.
La federazioni locali organizzeranno viaggi collettivi (utilizzando le macchine) per favorire la massima partecipazione. Per rendere contatti con i compagni e le compagne leggere la pagina dei contatti.

Che fare del debito e dell’Euro? Un manifesto

La crisi L’Europa sta sprofondando nella crisi e nell’arretramento sociale, sotto la pressione dell’austerità, della recessione e della strategia di “riforme strutturali”. Tale pressione è rigorosamente coordinata a livello europeo, sotto direzione del governo tedesco, della Banca centrale europea (BCE) e della Commissione europea (CE): C’è vasta convergenza nel sostenere l’assurdità di queste politiche come pure sul fatto che a guidarle ci siano degli “analfabeti”: l’austerità di bilancio non riduce il gravame del debito, genera una spirale recessiva, sempre maggiore disoccupazione e semina disperazione fra le popolazioni europee.
Eppure, esse sono del tutto razionali dal punto di vista della borghesia. Costituiscono uno strumento drastico – una terapia d’urto – per ricostituire i profitti, garantire le rendite finanziarie e realizzare le controriforme neoliberiste. Quel che succede, in sostanza, è la legittimazione ad opera degli Stati dei diritti della finanza di taglieggiare le ricchezze prodotte. Per questo la crisi assume la forma di una crisi dei debiti sovrani.

Il falso dilemma
Questa crisi è rivelatrice: dimostra come il progetto neoliberista per l’Europa non fosse sostenibile. Esso presupponeva che le economie europee fossero più omogenee di quanto non lo siano in realtà. Le differenze fra i paesi si sono approfondite in funzione del loro inserimento nel mercato mondiale e della loro sensibilità al tasso di cambio dell’euro. I tassi d’inflazione non sono stati convergenti e i deboli tassi d’interesse reale hanno favorito le bolle finanziaria e immobiliare e intensificato i flussi di capitale tra i vari paesi.
Tutte queste contraddizioni, inasprite dall’introduzione dell’unione monetaria, esistevano prima della crisi, ma sono esplose con gli attacchi speculativi ai debiti sovrani dei paesi più esposti.
Le alternative progressiste a questa crisi passano per una profonda rifondazione dell’Europa: la collaborazione è indispensabile a livello europeo, ma anche a quello internazionale, per la ristrutturazione industriale, la sostenibilità ecologica e lo sviluppo dell’occupazione. Poiché però una simile rifondazione globale non sembra a portata di mano visto l’attuale rapporto di forza, in diversi paesi l’uscita dall’euro viene presentata come soluzione immediata. Il dilemma sembra, quindi, essere quello di un’uscita arrischiata dall’eurozona e un’ipotetica armonizzazione europea che dovrebbe emergere dalle lotte sociali. Secondo noi, si tratta di una falsa contrapposizione: è invece decisivo elaborare una valida strategia politica di confronto immediato.
Ogni trasformazione sociale comporta la rimessa in discussione degli interessi sociali dominanti, dei loro privilegi e del loro potere, ed è vero che questo scontro si svolge principalmente in un quadro nazionale. Ma la resistenza delle classi dominanti e le misure di ritorsione cui sono in grado di ricorrere vanno al di là del quadro nazionale. La strategia di uscita dall’euro non contempla a sufficienza la necessità di un’alternativa europea, ed è per questo che occorre disporre di una strategia di rottura con l’“euro-liberismo” che consenta di fare emergere gli strumenti per un’altra politica. Questo testo non riguarda il programma, ma con quali strumenti realizzarlo.

Che cosa dovrebbe fare un governo di sinistra?
Siamo sommersi in quella che si potrebbe tecnicamente chiamare una “crisi di bilancio”. Questa crisi, che si protrae grazie al gioco combinato del “disindebitamento” del settore privato e delle politiche di austerità di bilancio, ha la sua origine nella passata accumulazione di attivi fittizi, non corrispondenti ad alcuna base concreta. Praticamente, ciò significa che i cittadini i sono oggi costretti a pagare per il debito, in altri termini a legittimare i diritti della finanza di taglieggiare la produzione e le entrate fiscali presenti o future.
Gli Stati europei, con un’operazione rigorosamente coordinata a livello europeo – e anche a livello mondiale – hanno deciso di nazionalizzare i debiti privati trasformandoli in debito sovrano e di imporre politiche di austerità e di trasfert per pagarli. È la scusa per mettere in atto “riforme strutturali”, i cui obiettivi sono classicamente neoliberisti: riduzione dei servizi pubblici e del Welfare, tagli delle spese sociali e flessibilizzazione dei mercati del lavoro, abbassando i salari diretti e indiretti. Una strategia politica di sinistra dovrebbe incentrarsi, secondo noi, sulla conquista di una maggioranza favorevole a un governo di sinistra in grado di spazzare via tutte queste imposizioni.

Liberarsi della presa dei mercati finanziari e controllare il deficit
A breve termine, una delle prime misure di un governo di sinistra dovrebbe essere quella di trovare i mezzi per finanziare il deficit pubblico, indipendentemente dai mercati finanziari. Questo è vietato dalla regole europee ed è invece la prima rottura da mettere in atto. Esiste un’ampia gamma di misure possibili, che non sono nuove e che sono state utilizzate in passato in diversi paesi europei: un prestito forzoso da parte delle famiglie più facoltose; il divieto di avere prestiti da non residenti; l’obbligo per le banche di una quota di obbligazioni pubbliche; una tassa sui trasferimenti internazionali di dividendi e sulle operazioni in conto capitale, ecc, e naturalmente una radicale riforma fiscale.
La cosa più semplice sarebbe che fosse la Banca centrale nazionale a finanziare il deficit pubblico, come avviene negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Giappone, ecc.. Sarebbe possibile creare un’apposita banca autorizzata a rifinanziarsi presso la Banca centrale, ma che avrebbe come principale funzione quella di acquistare obbligazioni pubbliche (è del resto quello che la BCE ha già fatto nella pratica).
Naturalmente il problema non è tecnico, in realtà. Si tratta di una rottura politica con l’ordinamento europeo. Senza questa rottura, ogni politica suscettibile di non “tranquillizzare i mercati finanziari” verrebbe immediatamente contrastata attraverso l’aumento del costo del finanziamento del debito pubblico.

Liberarsi della stretta dei mercati finanziari e ristrutturare il debito
Questa prima serie di misure immediate non è sufficiente a ridurre il carico del debito accumulato e degli interessi relativi. L’alternativa è allora questa: o un’eterna austerità di bilancio, o una moratoria immediata sul debito pubblico seguita da misure di annullamento del debito. Un governo di sinistra dovrebbe dire: “Non possiamo pagare il debito risucchiando i salari e le pensioni, e ci rifiutiamo di farlo”. Dopo aver avviato la moratoria, occorrerebbe organizzare un audit civico [inchiesta con larga partecipazione dei cittadini] per individuare il debito illegittimo, che in genere si riferisce a quattro elementi:
  • i “regali fiscali” passati concessi alle famiglie più abbienti, alle imprese e ai detentori di rendite;
  • i privilegi fiscali “illegali”: evasione fiscale, ottimizzazione fiscale, paradisi fiscali e amnistie;
  • i piani di salvataggio delle banche da quando è esplosa la crisi;
  • il debito creato dal debito stesso, per l’effetto valanga creato dalla differenza tra il tasso d’interesse e i tassi di crescita del PIL, erosi dalle politiche di austerità e di disoccupazione.
L’audit apre la strada all’imposizione di uno scambio di titoli del debito che consentirebbe di annullarne gran parte. È la seconda rottura.
Ma i debiti sovrani sono anch’essi mescolati con il bilancio delle banche private. Per questo il piano di salvataggio di un paese è in generale un piano di salvataggio delle banche. È indispensabile una terza rottura rispetto all’ordinamento neoliberista, e questa passa per il controllo dei movimenti internazionali di capitali, il controllo del credito e la socializzazione delle banche. È l’unico modo razionale per districare il groviglio di debiti. In fondo, è la scelta decisa in Svezia negli anni ’90 (anche se poi le banche sono state riprivatizzate).
Riassumendo, l’apertura di una strada alternativa richiede un insieme coerente di tre rotture:
  • il finanziamento delle emissioni di debito sovrano, passato e futuro
  • l’annullamento del debito illegittimo
  • la socializzazione di banche per il controllo del credito.
Sono gli strumenti per una reale trasformazione sociale. Come muoversi in pratica?

Per un governo di sinistra
Queste tre grosse rotture, indispensabili per resistere al ricatto finanziario, non possono andare in porto se non con un governo di sinistra. Benché le condizioni sociali e politiche di una strategia di convergenza e di lotta per un governo del genere varino largamente da un paese all’altro, l’intera Europa si è concentrata nell’estate 2012 sull’eventualità che Syriza potesse vincere le elezioni e costituire l’asse di questo governo in Grecia. Da allora, Syriza porta avanti una campagna sui temi essenziali che sosteniamo nel presente Manifesto: un governo di sinistra costituisce una coalizione per denunciare il memorandum della Trojka e ristrutturare il debito, allo scopo di preservare i salari, le pensioni, i servizi pubblici della sanità e dell’istruzione e la sicurezza sociale.
Il nostro approccio è in sintonia con quello di Syriza: «Niente sacrifici per l’euro».

Uscire dall’euro non è una garanzia di rottura con l’“euro liberismo”
È evidente che un governo di sinistra che prenda simili misure deve essere deciso ad applicare un programma socialista e disporre di un largo sostegno popolare. E quest’ultimo si ottiene solo se stabilisce chiaramente come obiettivi prioritari la lotta contro gli interessi della finanza, la ricostruzione di un’economia di piena occupazione e la gestione collettiva dei beni comuni. Non si deve deviare da questa strategia: se lo scopo è l’annullamento del debito, non ci si deve allontanare da questo obiettivo.
La coerenza e la chiarezza politica sono le condizioni per vincere – e per meritare di vincere. La prima misura di un governo di sinistra deve perciò essere la lotta contro il debito e l’austerità.
Perché questa politica “contro” sia efficace, un governo di sinistra deve basarsi su un ampio sostegno popolare ed essere disposto a utilizzare tutti gli strumenti democratici necessari per far fronte alla pressione degli interessi finanziari, incluse misure di nazionalizzazione dei settori strategici, e a uno scontro diretto con il governo Merkel, la BCE e la CE. La battaglia per la difesa della democrazia e delle conquiste sociali va estesa a livello soprannazionale. Ma se la politica di Bruxelles vi si oppone, la battaglia si dovrà alla fine portare avanti nei quadri nazionali che già esistono. In questa battaglia non dovrebbero esservi tabù sull’euro e tutte le opzioni dovrebbero rimanere aperte, compresa quella dell’uscita se non vi è alcun’altra soluzione nel quadro europeo, o se le autorità europee vi costringessero un paese, Ma non dovrebbe essere questo il punto di partenza.
La implicazioni di un’uscita dall’eurozona per un governo di sinistra dovrebbero essere esplicitate. In primo luogo, essa non consentirebbe automaticamente di reinstaurare la sovranità democratica: certo, il finanziamento del debito pubblico sfuggirebbe al controllo dei mercati finanziari, ma questo potrebbe essere esercitato attraverso la speculazione contro la nuova/vecchia moneta di un paese che avesse un deficit estero.
D’altra parte, il gravame del debito non si ridurrebbe. Aumenterebbe, al contrario, in relazione al tasso di svalutazione, poiché il debito si esprime in euro. In questa situazione, il governo sarebbe indotto a convertire il debito pubblico nella nuova moneta, il che equivarrebbe a un parziale annullamento: rientra nei poteri di uno Stato assumere una decisione del genere, anche se andrebbe previsto un conflitto internazionale. Ma le imprese private e le banche non dispongono dello stesso potere sovrano e, di conseguenza il valore dei debiti privati e finanziari aumenterebbe nella moneta nazionale. In questo quadro, la nazionalizzazione delle banche sarebbe alla fine una necessità, semplicemente per evitare il fallimento dell’intero settore del credito, cosa che implicherebbe un ulteriore aumento del debito pubblico di fronte alla finanza internazionale.
Inoltre, la svalutazione della nuova moneta scatenerebbe un processo inflazionistico che porterebbe all’aumento dei tassi d’interesse e all’aggravarsi del peso del debito e delle disuguaglianze dei redditi.
Infine, l’uscita dall’euro viene in genere presentata come una strategia tendente a conquistare parti di mercato grazie a una svalutazione concorrenziale. Questo tipo d’approccio non rompe con la logica della concorrenza di tutti contro tutti e gira le spalle a una strategia di lotta europea comune contro l’austerità.
Nel complesso, lottando senza fare dell’uscita dall’euro e dall’UE un criterio aprioristico, un governo di sinistra potrebbe ampliare i suoi margini di manovra e rafforzare il suo potere di negoziare basandosi sul probabile estendersi delle resistenze ad altri paesi dell’UE. Si tratta dunque di una strategia progressista e internazionalista, contrapposta a una strategia isolazionistica e nazionale.

Per una strategia di rottura ed estensione unilaterale
Le strategie progressiste si contrappongono al progetto neoliberista di concorrenza generalizzata.
Esse sono fondamentalmente cooperative e funzioneranno tanto meglio se si estenderanno al maggior numero di paesi. Ad esempio, se tutti i paesi europei riducessero l’orario di lavoro e istituissero un’imposta uniforme sui redditi da capitale, un simile collaborazione consentirebbe di evitare le conseguenze che si subirebbero se ci si limitasse a un solo paese. Per aprire questa strada di collaborazione, un governo di sinistra dovrebbe seguire una strategia unilaterale:
  • Le “buone” misure vengono attuate unilateralmente, ad esempio il rifiuto dell’austerità o la tassazione delle transazioni finanziarie.
  • Esse vengono accompagnate da misure protezioniste, ad esempio il controllo dei capitali.
  • L’avvio a livello nazionale di politiche in contrasto con le regole europee rappresenta un rischio politico di cui va tenuto conto. La risposta sta in una logica di estensione, perché queste misure – ad esempio il rilancio del bilancio o la tassa sulle transazioni finanziarie – vengano adottate da altri Stati membri.
  • Tuttavia, lo scontro politico con l’UE e con le classi dirigenti di altri Stati europei, soprattutto il governo tedesco, è inevitabile e la minaccia di uscita dall’euro non va esclusa a priori dalle possibili opzioni.
Questo schema strategico ammette che la rifondazione dell’Europa non può essere una condizione preliminare all’attuazione di una politica alternativa. Le eventuali misure di ritorsione contro un governo di sinistra vanno neutralizzate con contromisure, che effettivamente implicano il ricorso a dispositivi protezionistici. Ma l’orientamento non è protezionista nella comune accezione del termine, in quanto si protegge un processo di trasformazione sociale portato avanti dal popolo e non si proteggono gli interessi dei capitali nazionali nella loro concorrenza con altri capitali.
Si tratta, dunque, di un “protezionismo d’estensione”, chiamato a scomparire una volta generalizzate attraverso l’Europa le misure sociali per l’occupazione e contro l’austerità.
La rottura con le regole dell’UE non poggia su una petizione di principio, ma sulla legittimità di misure giuste ed efficaci, corrispondenti agli interessi della maggioranza e che vengono del pari proposte ai paesi vicini. Un simile orientamento strategico può allora essere rafforzato dalla mobilitazione sociale negli altri paesi e sorreggersi quindi su un rapporto di forza in grado di rimettere in discussione le istituzioni dell’EU. La recente esperienza dei piani di salvataggio neoliberisti messi in atto dalla BCE e dalla Commissione europea dimostra come sia assolutamente possibile aggirare un certo numero di disposizioni dei trattati dell’UE, e come le autorità europee non abbiano esitato a farlo, e in peggio. Per questo rivendichiamo il diritto di prendere misure che vadano nel senso buono, inclusa l’introduzione di un controllo dei capitali e di tutti i dispositivi che consentano di salvaguardare i salari e le pensioni. In questo schema, l’uscita dall’euro, ancora una volta, è una minaccia o un’arma di ultima istanza.
Questa strategia si basa sulla legittimità di soluzioni progressiste derivanti dal loro carattere di classe. Si tratta di una strategia collaborativa di rottura con il quadro attuale dell’UE, in nome di un altro modello di sviluppo basato su una nuova architettura per l’Europa: un bilancio europeo allargato, alimentato da una comune tassa sul capitale, che finanzi fondi di armonizzazione e investimenti socialmente ed ecologicamente utili. Non ci aspettiamo però che un cambiamento simile avvenga da solo, e poniamo all’ordine del giorno la lotta immediata contro il debito e contro l’austerità, per giuste misure di difesa dei salari e delle pensioni, della protezione sociale e dei pubblici servizi. È questo il nostro orientamento strategico per un governo di sinistra.

Primi firmatari:

Daniel Albarracín, Nacho Álvarez, Bibiana Medialdea (Stato spagnolo)
Francisco Louçã, Mariana Mortagua (Portogallo)
Stavros Tombazos (Cipro)
Giorgos Galanis, Özlem Onaran (Gran Bretagna)
Michel Husson (Francia)

Nuovi firmatari

Stato spagnolo: Manolo Garí, Antonio Sanabria, Jorge Fonseca, Teresa Pérez del Río, Lidia Rekagorri Villar (Euskal Herria)
Francia: Gilles Orzoni, Jacques Rigaudiat, Philippe Zarifian, Gilles Raveaud, Jacques Cossart, Nicolas Béniès, Marc Bousseyrol, Mathieu Montalban, Samy Johsua, Catherine Samary, Dany Lang, Bruno Théret, Claude Calame, Jean-Marie Harribey, Ozgur Gun, Patrick Saurin, Antoine Math, Pierre Khalfa, Eric Toussaint, Marc Mangenot, Jean Gadrey, Mireille Bruyère, Henri Philipson, Pierre Bitoun, Patrick Saurin, Pierre Khalfa, Bernard Guibert, Robert Kissous, Guillaume Etievant, Jean-Marie Roux, Jakes Bortayrou (Paese Basco), Thomas Coutrot, Philippe Légé, Olivier Lorillu, Boris Bilia, Christiane Marty

Pagina web: http://tinyurl.com/euro13
Traduzione di Titti Pierini